Sono passate poco meno di 24 ore dalla partita e le sensazioni non sono cambiate. Resta negli occhi e nella testa la delusione fortissima per una sconfitta ottenuta nel modo peggiore, senza mai essere in partita, senza mai lottare, dando l’impressione di essere totalmente inadeguati ad un appuntamento di questa importanza, la partita delle partite. Un esito del genere era difficile da prevedere, la stagione è stata grandiosa, un record abbattutto dopo l’altro, l’attacco migliore della storia NFL (almeno a volere guardare i numeri messi nei libri dei record) che si presenta all’atto finale per chiudere in bellezza. Si pensava fosse l’occasione per festeggiare Manning e la sua carriera da futuro Hall of Fame senza il minimo dubbio, fresco del quinto titolo MVP appena vinto, poteva essere l’occasione per Champ Bailey di suggellare con l’anello 15 anni di football ai massimi livelli e mai, prima di ieri, l’apparizione al Super Bowl. Si voleva festeggiare Elway, che da giocatore 15 anni fa alzava al cielo il Vince Lombardi Trophy e da dirigente massimo dei Broncos ha riportato sul tetto del mondo questa squadra. Si voleva festeggiare John Fox, reduce da problemi cardiaci che ne avevano messo in dubbio la carriera e che ha “avuto paura di morire” e solo poche settimane dopo si ritrova amante ancora di più del suo “lavoro” e con la possibilità di vincere il match più importante.
C’erano tante belle storie in attesa del lieto fine, li a portata di mano, solo da scrivere. C’erano tutti i presupposti per chiudere al meglio la stagione. Certo non c’era la sicurezza di vincere. La stagione dei record aveva lasciato comunque ben visibili alcuni punti deboli che questa squadra ha ed ha avuto per tutto l’anno. La difesa non eccelsa, l’attacco sulle corse buono ma non fenomenale, la poca tendenza a creare turnover e dunque i pochi palloni recuperati agli avversari. Tutti punti deboli che si accoppiavano al meglio (o al peggio) con i punti di forza di Seattle, a cominciare dalla sua dominante difesa ultra fisica, al suo gioco di corse schiacciasassi e alla capacità del suo qb Russel Wilson di creare buone giocate dal nulla, eludendo la pressione della difesa avversaria con la sua mobilità. Insomma Seattle era tutt’altro che la vittima sacrificale di turno alla vigilia del match ma aveva tutte le carte in tavola per giocarsi ad armi pari la sfida. Ecco, ad armi pari però.
Invece l’ha dominata dal primo secondo all’ultimo. Non c’è mai stata una partita, non c’è stato un confronto tra due squadre al top della lega, una non è mai arrivata allo stadio e in questa partita non ci è mai entrata. Francamente, trovare i motivi, è difficile. Sono convinto che se si rigiocasse questo match 10 volte, Denver vincerebbe più della metà delle sfide. Non è inferiore a Seattle, ha più armi dalla sua per vincere una partita di football. Purtroppo però i Super Bowl non sono una serie di sfide, dove la più forte può venire fuori alla distanza, ma sono 60 minuti di football in cui bisogna dare tutto quello che è rimasto nel serbatoio al termine di una stagione massacrante. Seattle ha dato tutto, fisicamente ha dominato ogni duello in ogni angolo del campo, dalle trincee sulle due linee, agli scontri tra ricevitori e secondarie, con una fisicità che i Broncos non solo non hanno a disposizione, ma probabilmente non hanno nemmeno mai dovuto fronteggiare in stagione tra gli avversari incontrati. Non erano pronti a una sfida di questo livello fisico. La maggiore qualità e tecnica nulla ha potuto ieri di fronte alla voracità con la quale i giocatori di Seattle si buttavano nei contrasti, nei placcaggi, nei blocchi. I Broncos sono stati umiliati, storditi e spaventati prima di tutto fisicamente. Gli sguardi dei giocatori durante il match erano spaesati, impauriti, increduli, impotenti.
In questi casi, di fronte ad una prestazione così disarmante in tutte le fasi, trovare una spiegazione tecnica alla sconfitta è impossibile. Dal primo snap del match, perso in maniera comica dall’attacco per un’incomprensione tra Manning e il centro Ramirez e che ha determinato la safety e quindi il vantaggio di Seattle, è stata una fiera degli errori/orrori da parte dei Broncos. Intercetti, fumble, penalità, difesa fatta a fette, attacco incapace di guadagnare yards e imbastire un drive degno di questo nome, special teams ridicoli con punt di 30 yards e ritorno da kickoff in cui si è concesso il TD alla prima azione della ripresa, quarti down non convertiti e errori di tutti i reparti e in tutti i momenti del match. Davvero tutto quello che si poteva sbagliare lo si è sbagliato. Non c’è mai stata la sensazione che i Broncos potessero rientrare in partita, è stato un trionfo di Seattle durato 60 minuti. I meriti dei Seahawks non vanno sminuiti, come già detto, è una squadra giovane, forte fisicamente, con una delle difese più forti mai viste su un campo da footbal negli ultimi anni (insieme ai grandi Bears e ai Ravens dei primi anni 2000), con un qb al secondo anno già maturo e talentuoso il giusto per capire quando forzare e quando non rischiare la giocata stupida e alcuni playmakers offensivi come il running back Lynch e il ricevitore Percy Harvin, utilizzato con schemi intelligenti anche su corse per sfruttarne la sua velocità, così come sui ritorni di punt e kick off. Insomma un’ottima squadra ma una squadra assolutamente battibile per quello che la stagione e anche i playoffs avevano messo in luce.
Sarebbe facile ora puntare il dito su Manning, parlare di non vincente, di braccino, di mancanza di carisma e di tenuta psicologica nei momenti che contano della stagione. Non credo sia giusto. Quest’anno è stato il suo miglior anno, i numeri non mentono mai, ma non dicono tutto certo. Manning ha perso esplosività, ha perso potenza sui lanci lunghi, ma ha compensato con un’intelligenza e un’abilità nel prendere decisioni che ne compensava i limiti fisici che stanno aumentando con l’avanzare dell’età. Come giustamente detto da un suo compagno di squadra durante le interviste post-partita, Manning non è la causa della sconfitta di ieri, ma è il motivo per cui i Broncos sono arrivati al match di ieri. Anche lui ieri ha tradito certo, come tutti gli altri 45 giocatori in campo e come anche il coaching staff. E’ stata una sconfitta in cui non c’è un colpevole solo, ma tutti hanno dato il loro peggio nel momento più delicato e importante. Questa esperienza servirà ad alcuni per maturare ancora di più, per non sentirsi arrivati, per realizzare che Manning è stato determinante nel nascondere i limiti che altri giocatori hanno e che le vittorie meritate della stagione regolare hanno forse montato troppo la testa dei giocatori meno importanti e ne hanno coperto i difetti e i limiti. L’anno prossimo tante cose cambieranno, ci saranno giocatori nuovi e alcuni punti cardine di questa squadra se ne andranno perchè free agent e il salary cap difficilmente permetterà di tenerli tutti (Decker, Beadles, Moreno, Rodgers-Cromartie, Phillips saranno tutti FA), non è nemmeno certo che Manning sia in grado di ripetere, con un anno in più sulla carta d’identità, una stagione ad un livello così alto. Insomma, non c’è certezza, la sensazione è che questo fosse davvero l’anno perfetto per vincere e che forse potrebbero non esserci altre opportunità a breve. Tutti discorsi che verranno affrontati con calma, con l’esperienza e il peso di questa sconfitta che non lasceranno l’ambiente per molto tempo.